In controtendenza con quanto affermava il poeta romantico John Keats, la sconfitta dell’Inter contro l’Hapoel Be’er Sheva ha molti padri. Frank De Boer e i giocatori dovranno tenere a mente questa gara d’esordio in Europa League, per capire cosa va evitato in futuro, perché gare del genere devono essere orfane, uniche, non riproponibili.
Il tecnico olandese sceglie di affidarsi ad un 4-2-3-1, cambiando, anche per via della forzata lista Uefa, 7/11 dei titolari. In difesa Ranocchia affianca Murillo e Nagatomo rientra sulla sinistra dopo un breve stop; il centrocampo vede l’inserimento di Felipe Melo e Brozovic; l’attacco dà spazio al tridente Palacio, Eder, Biabiany.
La scelta di De Boer prevede Melo e Medel bassi a centrocampo, con Brozovic libero di svariare nello spazio di 30 metri. Ciò consente al tecnico di avere un uomo abile ad attaccare gli spazi ma soprattutto capace di giocare la sfera di prima sui movimenti degli esterni. Già fin dai primi minuti spicca la voglia del croato ad essere nel vivo dell’azione: scala sull’out di destra e permette a Palacio di attaccare la profondità, dando la possibilità a Eder di entrare tra le linee dei centrali israeliani; scala sulla sinistra per mettere in moto Nagatomo sempre pronto alla sovrapposizione nonostante i cross non esattamente perfetti.
L’idea nell’immaginario (e lì purtroppo resterà) di De Boer è creare dei movimenti multipli in uscita in grado di scardinare la maglia a 5 dell’Hapoel che, in maniera ordinata, ha stazionato per tutta la gara con una linea sempre bassa e stretta. Palacio ha fornito molti spunti sulla destra, attaccando i 3 metri tra Tzedek e Korhut; Eder ha provato ad essere il raccordo tra i reparti, ricevendo molti palloni, ripulendoli, scaricando sugli esterni per poi attaccare l’area di testa tagliando sul primo palo o tornado sul limite per andare al tiro. Il problema principale però derivava, oltre che dai movimenti bassi di D’Ambrosio e Biabiany (con il solo Nagatomo sempre pronto a fornire la sovrapposizione quasi mai sfruttata), dal fatto che il centrocampo, basso, non alzava il baricentro per creare la densità. La squadra è rimasta sempre molto sfilacciata e questo ha permesso al tecnico israeliano Bakhar di impostare la gara come aveva pianificato. L’Hapoel ha infatti giocato in velocità, sempre verticale in uscita in modo da poter attaccare gli spazi, facendo allargare l’Inter tramite i movimenti di Buzalgo e Nwakaeme, che hanno praticamente fatto muovere la diagonale di difesa nerazzurra a proprio piacimento.
L’uscita della palla nerazzurra invece è stata sempre lenta, timorosa, disordinata. Se De Boer chiedeva uno schieramento 2-4-1-3 con baricentro alto per alzare la pressione, ha presto dovuto fare i conti con un reparto difensivo impacciato nello scarico e due mediani lenti nella circolazione. Non è un caso che nonostante l’Inter recuperasse la sfera (e nei primi minuti ci sono state diverse situazioni da possibile transizione offensiva) non è riuscita ad andare in verticale. La squadra è rimasta spesso lunga e stretta senza mai provare ad aprire gli avversari di 5 metri. Solo Eder Brozovic e Palacio nel primo tempo hanno cercato di giocare sull’ampiezza, ma con scarsi risultati poiché mai coadiuvati. L’Hapoel ha attaccato molto in transizione, cercando di andare alle spalle della retroguardia nerazzurra che si è lasciata attrarre nei movimenti all’esterno, senza curarsi troppo degli inserimenti sul lato cieco. Maranhao sfiora per ben due volte il gol su situazioni create e ragionate.
L’Inter tiene si più palla (alla fine sarà un 64-36) e gioca molti più palloni(488-274) ma non andando mai in verticale ha concesso agli israeliani di giocare praticamente la gara perfetta. De Boer avrebbe dovuto chiedere, oltre che una dose di rabbia e cinismo maggiore, dei movimenti più fluidi, senza palla, finalizzati a giocare la fase di possesso larga ma verso la porta. Abbiamo assistito ad un paleggio lento, prevedibile, che ha favorito la forza atletica e fisica della squadra ospite. L’Inter nel primo tempo non ha mai concluso nello specchio e non è frutto della casualità. Il tiro è quasi sempre la conseguenza di un’azione costruita, di movimenti utili senza palla tanto quanto il passaggio smarcante che permette di calciare. La linea 5-4 dell’Hapoel ha sortito l’effetto da loro sperato: tenere l’Inter a bada, non permettere sovrapposizioni, tenere quanti più uomini bassi. Da questa impostazione l’Hapoel ha tratto enorme vantaggio. Recuperando palla ha sempre attaccato la profondità, portando Melo o Medel ad allargarsi, Ranocchia o Murillo (chiaramente in base al lato di gioco) a scalare, approfittando dello stazionamento in terra di nessuno dei terzini e del mancato ripiegamento degli esterni d’attacco. Facendo questo, nonostante qualche palla persa, l’Hapoel si garantiva un recupero repentino degli spazi di gioco, ma soprattutto costringendo l’Inter a giocare o un’uscita rischiosa a causa delle maglie sfilacciate, o un’uscita lenta che prevedesse il retropassaggio al portiere.
Probabilmente De Boer avrebbe dovuto leggere meglio la gara, mettendo più in ritmo Brozovic che comunque nonostante un solo tempo a disposizione, ha cercato di giocare scarichi ad un tocco per andare in verticale, dovendo però constatare che nessuno dei giocatori di fascia (Palacio escluso) seguisse i suoi passaggi. La scelta di levare lui (e non un mediano) per inserire Banega è stata quanto meno discutibile.
Il secondo tempo ha solo portato cinque minuti di illusione. L’ingresso di Banega, che sembrava aver dato rapidità alla squadra, ha fatto a pugni con la poca propensione dei compagni di reparto e degli esterni di attaccare gli spazi in verticale. Nonostante qualche buon passaggio e qualche azione interessante, la squadra non ha cambiato modo di interpretare la gara. Nonostante il palo colpito da Eder, le azioni dei nerazzurri sono state confuse, frutto delle giocate di 2-3 elementi che da soli hanno cercato di costruire tiri dopo fasi di possesso lente e orizzontali.
Il gol di Vitor arriva sì su un evidente fallo su Medel, ma non è grave il gol in se, non è grave che Maranhao riesca a scaricare una palla che attraversa l’area nerazzurra per arrivare ai piedi del giocatore portoghese completamente libero sul secondo palo. Il vero problema è la mancata reazione dei giocatori. La squadra subisce e si spegne, manca di mordente, di orgoglio, di voglia di riacciuffare una gara che ancora riservava 36 minuti.
L’Inter va in totale spegnimento, smette di giocare, salta ogni schema, che si limita al recupero palla e alla spinta verso gli esterni, pronti a rientrare per andare al tiro o per mettere cross in mezzo. Di per se la reazione è corretta, ma l’atteggiamento sufficiente ha reso inutile ogni tentativo. A poco o nulla sono serviti gli inserimenti di Candreva prima e Icardi poi. Nonostante qualche spunto in più per l’italiano, l’Inter aveva mentalmente già abbandonato la gara.
Il gol che chiude ogni discorso arriva un quarto d’ora più tardi. Su un calcio di punizione innocuo di Buzaglo, il portiere Samir Handanovic decide di non intervenire, limitandosi ad osservare la palla entrare nella parte centrale della porta. Definirlo errore è un eufemismo.
Lo 0-2 è stato il colpo di grazia ad una squadra che nonostante i venti minuti a disposizione, si è limitata ad una gestione del pallone senza reale utilità. L’Hapoel ha poi svolto il proprio compito votato alla chiusura delle linee di passaggio, al fallo più o meno sistematico e alle transizioni offensive che quasi regalano lo 0-3 agli israeliani.
Nulla può essere salvato in questa sconfitta che sconforta e per il disordine tattico palesato e per la mancanza di grinta che è alla base di ogni discorso di campo. Uno schema, una filosofia di gioco deve sposarsi con la decisione la voglia di volerlo assimilare, metterlo in pratica, con la convinzione che sia ciò che può portarti alla vittoria. L’auspicio è che questa gara rimanga un terribile episodio isolato. Soprattutto se, com’è giusto fare, si volge lo sguardo verso la sfida di domenica.
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